“Io sono venuto perché abbiano la vita

e l’abbiano in abbondanza».

Gv. 10,10

 

Quella di oggi è conosciuta come la “Domenica del buon pastore”. In effetti però il brano evangelico del capitolo 10 di Giovanni proposto dalla liturgia di oggi si ferma immediatamente prima della definizione che Gesù dà di sé attribuendosi questo titolo. Ma è chiaro che tutto il testo che viene proposto alla nostra riflessione è costruito intorno a questa immagine. Gesù la riprende dalla vita concreta e dalla tradizione biblica per farci comprendere che tutto l’itinerario di Israele e la figura del re-pastore, che ritorna spesso nei racconti biblici e ha un suo momento fondamentale nella figura del re Davide, converge e giunge a pienezza proprio nella sua vicenda personale di Messia e Figlio di Dio. E’ lui l’unico e l’autentico “pastore d’Israele”, a cui tutti possiamo fare riferimento.

A questa pagina ne va accostata almeno un’altra, che probabilmente tutti abbiamo in mente e che costituisce forse la spiegazione più approfondita di quanto dice Gesù: In Lc. 15, 4-7 egli presenta come “normale” un comportamento che proprio normale non è: un pastore che lascia incustodite 99 pecore per cercare l’unica che se n’è andata per conto suo. E’ quanto di più anti-economico si possa immaginare e, se ci pensiamo solo un attimo, potrebbe apparire una scelta semplicemente scellerata.

Eppure da queste due pagine, lette in parallelo, emerge probabilmente in modo più preciso il pensiero di Gesù: quando parla di sé si presenta come il Figlio di Dio, come Dio stesso che va in cerca dell’uomo in modo amorevole e appassionato, non mercenario, disposto a mettersi in gioco totalmente e a perdersi per il bene dell’altro. Ancora una volta è l’annuncio della Pasqua, del Dio che ama e che si dona, che ci viene riproposto.

Da questa immagine del “buon pastore” ha preso forma un vero e proprio linguaggio nella tradizione della comunità cristiana: chiamiamo comunemente “pastorale” l’agire della Chiesa, che non si riduce alla sola liturgia, ma dovrebbe essere proprio la riproposizione dello stile di Gesù. E ai preti viene proposto come stile abituale di vita quella che viene chiamata la “carità pastorale”, cioè un modo di essere e di relazionarsi che sia fatto di amore autentico e di attenzione alle persone loro affidate. E subito ci rendiamo conto di come queste parole siano probabilmente solo una pallida immagine di quello che vorrebbero e dovrebbero significare.

La “pastorale” oggi, come tanti cominciano a dire, dovrebbe essere per gran parte ripensata. Da un “centro di servizi garantiti a basso costo” le nostre parrocchie dovrebbero diventare sempre più dei luoghi che introducono e abilitano ad un progressivo incontro con il Signore e mantengono vivo nel cuore degli uomini il desiderio della comunione profonda con lui. E qui ci rendiamo conto tutti di quanta strada c’è ancora da fare, di quanto di essenziale della fede ci siamo persi per strada, probabilmente “in buona fede”… e senza nemmeno rendercene conto. Questa interruzione forzata che stiamo vivendo di tante attività ci mette un po’ in questione, ci invita ad interrogarci su ciò che è veramente importante. Vedremo tra qualche tempo se le riflessioni di questi giorni riusciranno a produrre qualche cambiamento concreto.

E anche come preti, come “pastori” ci rendiamo conto di quanto sia limitata la nostra testimonianza. Il Signore conosce tutta la nostra povertà, non pretende che “siamo come lui” (e chi ci riesce veramente?) ma ci invita piuttosto, come diceva il profeta Geremia e come ci ricordava Giovanni Paolo II ad essere “pastori secondo il suo cuore” (Ger. 3, 14-17), cioè che provano ogni giorno a vivere a partire dalla bontà e dalla misericordia di Dio che abbiamo sperimentato, con tanta pazienza e umiltà.

Il pastore d’Israele dell’Antico Testamento e il “buon pastore” che è Gesù di Nazaret in fondo non sono due immagini di forza o di potenza, ma semplicemente di servizio. E’ il compito che Gesù affida a tutti noi, perché come credenti ci mettiamo al servizio gli uni degli altri e possiamo essere in questo modo immagine della sua presenza, segno – povero, ma il più possibile autentico – dell’unico Pastore che conosce le sue pecore ad una ad una e le conduce, perché “abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”.

 

don Francesco.